Studio Morbiducci via g.b.bodoni 83, 00153 roma tel.+39.065746285 - amorbiducci@alice.it
 
 

Dominique Lomré

Mostre:    
Corpo a corpo 24 novembre - 12 dicembre 2003 a cura di Carlo Alberto Bucci

Antonio Piovanelli e Dominique Lomré: due artisti e due uomini apparentemente così diversi e lontani che, sulla carta, non avrebbero mai dovuto incontrarsi. Se il comune interesse per un luogo, l' atelier primi Novecento dello scultore Morbiducci a Testaccio (dove l'attore Piovanelli s'era messo in testa di riportare in scena il suo fortunato Michelangelo ed il pittore Lomré di allestire una mostra dedicata ai suoi ultimi lavori) non li avesse messi di fronte alla coincidenza di una approfondita meditazione svolta da entrambi intorno alla poesia di Michelangelo. In particolare Lomré, che a certi versi tratti dal capitolo 263 delle Rime ha dedicato cinque dei suoi sessanta libri-dipinto, ha avuto la sorpresa di ritrovare quei medesimi versi a chiusura del copione-collage di scritti del Buonarroti raccolti da Pier Farri e Antonio Piovanelli. Racconta il pittore belga che, da circa dodici anni, da quando, cioè, lo scoprì vergato sulle pareti di un bellissimo studio prestatogli da un amico, quel brandello di poesia lo insegue, reclama il suo interesse. Esso è l'epigrafe dolorosa del genio immane che denuncia la sua fragilità di umana creatura: "Povero, vecchio e servo in forz'altrui ch'i' son disfatto, s'i' non muoio presto". A. Maria Morbiducci, arbitra dello spazio ambito dai due artisti, ha salomonicamente deciso di ospitarli nello stesso periodo, inventando per la duplice performance il titolo assai eloquente di Corpo a corpo. Perché, avverte G. Testori, il canzoniere di Michelangelo è un "forsennato, implacabile corpo a corpo col corpo". Perché, nel corso del suo monologo, Piovanelli ingaggia un vero corpo a corpo col suo personaggio, restituito alla platea nella piena fisicità di un uomo in carne ed ossa. Ed infine perché il corpo è al centro della riflessione artistica di Dominique Lomré. La mostra - Quando abbandona l'eleganza della cifra astratta, che ha scelto per decorare i suoi preziosi libri-quadro, Lomré dipinge il corpo così come noi lo percepiamo e, quindi, mai nella sua interezza. Quei corpi frammentati appartengono ad una umanità sola, abbandonata da Dio a se stessa. Gli arti divelti dal tronco, i busti acefali, i torsi raccontano il dolore supremo dell'abbandono senza violenza, ma con il tono coraggiosamente sommesso di chi comprende ed accetta la propria condizione. A depotenziarne ulteriormente la carica di drammaticità e sensualità, l'invenzione,distanziante, di una griglia di linee orizzontali, quasi una gelosia frapposta tra l'occhio di chi guarda e il soggetto dipinto.Nella solitudine della sua casa di campagna, Lomré ha messo a punto una tecnica velocissima che richiede, al contempo, sforzo atletico e massima concentrazione mentale. L'artista, spiega C. Alberto Bucci nel saggio introduttivo al catalogo, allaga resistenti fogli di carta da spolvero con una base di colore molto fluida (mordente nei toni del noce, ebano e palissandro) e acqua. Non disegnando, né utilizzando il pennello, l'unico intervento che si riserva è quello di governare l'alluvione creata sul supporto cartaceo direzionando la materia liquida con rapidi movimenti rotatori, in modo che essa risparmi le parti del foglio destinate alla figura. Essa alla fine emergerà miracolosamente delineata, ma del tutto amaterica, sottratta come è alla contaminazione del pigmento colorato. L'ambiziosa battaglia ingaggiata con l'acqua (è ancora una volta il caso di parlare di corpo a corpo) sarà spesso perduta: solo un lavoro su cinque riuscirà. Né l'artista, alla ricerca dell'immediatezza assoluta, si concederà la debolezza di un ritocco o di un ripensamento. Lo spettacolo - Di tensione alla perfezione e di sconfitte subite parlano anche gli scritti di Michelangelo, le lettere in particolare, dal linguaggio diretto e immediato, capaci di creare in chi vi si accosta la suggestione di spiare l'autore dal buco della serratura. Da una raccolta di questi scritti, documenti della Biblioteca Vaticana, carteggi privati e poesie autobiografiche, Antonio Piovanelli ricavò nel 1975 un monologo che può essere considerato un classico del teatro d'avanguardia di quegli anni. Non casualmente, esso debuttò all'Alberichino, leggendaria cantina romana che vide, tra gli altri, l'esordio di Benigni con il suo Cioni Mario. Esso fu riproposto fino all'inizio degli anni novanta, dopodiché se ne sentì parlare da chi aveva avuto la fortuna di vederlo come di una delle emozioni che un tempo il teatro sapeva dare. A una decina d'anni dall'ultima rappresentazione, Piovanelli si è fatto convincere a rimettere in scena i tormenti e le estasi, ma anche le meschinità e gli acciacchi di Michelangelo genio e uomo, celebrato e incompreso, gigante fragile invischiato nelle bassezze della vita. Come sempre, la scenografia è scabra per non distrarre lo spettatore dall'elemento essenziale dello spettacolo: la parola. Nel corso della sua lunga e fortunata carriera ( che lo ha portato a lavorare, spesso in ruoli da protagonista, in teatro, per Strehler, Visconti, Costa, Cobelli, Guicciardini, Cherif, Savelli, G. Bertolucci e Ronconi e, al cinema, per i fratelli Taviani, Lattuada, B. Bertolucci, Bellocchio, Montaldo e Archibugi), Piovanelli è diventato un virtuoso della parola,che scalpella quasi fosse materia, modulando la voce nei diversi registri del dolore, del cinismo, dell'autoderisione e via così all'infinito in un'ora di tesa emozione in cui si rinnova il miracolo della metamorfosi dell'attore nel suo personaggio.